Se aveva ragione Eugenio Montale a scrivere che "tutte le immagini portano scritto più in là", questo sembra essere particolarmente adatto quando riferito alle opere di Giuseppe Ayna, vere e proprie epifanie di luce, materia e spirito del vago.
Più in là significa spostare in avanti i paletti di un'esperienza estetica che non si ferma al guardare ma induce un vedere che va oltre la vista, un "subitaneo bagliore", l'espressione è di Meister Eckhart, che nasce nello spazio fisico dell'opera e poi si allarga all'esterno, come un respiro prolungato che si estende oltre il quadro per divenire spazio mentale: concentrazione, contemplazione e illuminazione. Come le icone queste opere risplendono emergendo dall'oscurità, ché sottolineata da una spessa fascia dipinta di color antracite o nero che le cinge ai bordi e che ricorda il "digiuno degli occhi" praticato dagli antichi costruttori di icone per prepararsi all'incontro con il divino. Per questo, opere come Y 343 (2015), prendono forma di una cavea risonante in cui la diffusa energia cromatica dell'acrilico non esplode ma in sarabanda chiassosa, ma rimane invece sottesa come fosse sommessamente trattenuta e modulata in un canto che è più notturno e melanconico che solare e apollineo. Del resto Ayna ha un rapporto viscerale di "corrispondenza di amorosi sensi" con Venezia e le sue atmosfere umbratili e soffuse, tanto che non sarebbe inappropriato considerare tra i suoi lontani referenti pittorici il Giorgione dei Tre Filosofi o della Tempesta, per la magia di certi verdi imbevuti di luce che si fanno contemporaneamente terra, acqua e atmosfera e in cui l’elemento solido coincide con quello liquido e gassoso.
La composizione dello spazio pittorico segue questa inclinazione, ritagliandosi in aree e campiture giustapposte, animate ciascuna da diverse tessiture e da svariate quanto raffinate tecniche di trattamento della superficie, una sapiente memoria che l’artista ha conservato dal suo apprendistato giovanile ispirato ai maestri comacini. Se in alcuni casi la memoria visiva corre alla strutturazione lirico-geometrica di Poliakoff è però nelle opera di Klee della prima metà degli anni Trenta che questo lavoro trova un suo precedente, nell’illuminata opacità e nelle trasparenze del colore, nel modo in cui la rappresentazione è superata dall’evocazione, nell’idea di una selva interiore romanticamente esprimibile e nel suggerimento altamente poetico che l’apparenza non esaurisce la complessità dei fenomeni poiché il mondo non ci è dato finito una volta per tutte, quanto qui precedentemente definito lo spirito del vago.
Dall’accordo tra atmosfere notturne, bagliori come echi lontani, presenze auratiche e una strutturazione organica e persino cellulare del campo spaziale, nasce la particolare poetica di Giuseppe Ayna, che non è fatta di dichiarazioni emblematiche o di proclami ad alta voce, ma gioca su minimi accadimenti grafici, su delicati trapassi tonali e su improvvisi quanto inaspettati rialzi di temperatura cromatica, come quando la composizione si accende grazie a una campitura che pulsa di pois rossi o quando la nebbia viola elettrico giunge ad addensarsi liberamente su un accordo di verdi profondi e terrosi.
Questo pulsare della luce imprime dinamismo centrifugo e centripeto a opere che si servono dell’asimmetria e dell’irregolarità per accrescere evocazione e trepidazione, come nei casi in cui alcune delle superfici più silenziose vengono repentinamente animate da contrappunti che richiamano alla mente la deregulation armonica del jazz. Del resto Giuseppe Ayna, da lungo tempo amante della musica di Miles Davis, può essere accostato al jazz per alcuni tratti ricorrenti e comuni il fraseggio solistico contratto che dialoga con la totalità dell’insieme, le improvvisazioni costruite su accordi di passaggio, le brevi ma incisive dissonanze, i richiami poliritmici. Tradotto nel linguaggio della pittura tutto ciò si manifesta in sgni incisi e spesse bordature che interrompono la stesura regolare del quadro, oppure in rialzi repentini di luce accostati a diminuzioni di tono. Sono espedienti che permettono all’artista di smuovere la quiete di fondo interrompendola con un elemento estraneo, spesso leggermente intrusivo e spiazzante, una nota cromatica dissonante affidata all’emergere dal fondo di un colore imprevisto, come magistralmente accade con il blu intenso e magnetico di Il Kimono di Mister Ho (2015). In altri casi, come nei piccoli cerchi rossi fiammanti di Ascoltando Dizzy G. (2016), un colore puro buca la superficie della tela e permette di godere, come il lampo che squarcia le nubi nella tempesta di Giorgione, della miriade di apparizioni fluide, multidirezionali e inattese che fioriscono tra le maglie della composizione.
C’è un laconico detto zen che può aiutare ad illustrare, questo procedimento ed esprimerne la natura “Grazie allo stridio dell’uccello, la montagna si fa ancora più quieta”. Come il verso del volatile non contrasta col silenzio del paesaggio montano, anzi lo accresce, così fanno le macule e le cerchiature cloisonnè di Ayna, che non contraddicono il vuoto meditativo dell’opera ma semmai lo amplificano, il vuoto che così si crea favorisce la fecondità del pensare, che non dipende necessariamente dalla completezza e dalla simmetria, ma sa qui servirsi ugualmente dei vuoti d’immagine o del gioco delle velature, tutti elementi di qui bisogna avere altrettanta cura di quanto si è soliti avere per la pienezza della forma.
La combinazione di forma (pieno) e vuoto (silenzio) è una delle caratteristiche del lavoro dell’artista, gli accordi , anche quelli dissonanti, tra luce e colore si liberano dallo sfondo e sembrano che materialmente lo buchino, attraversandolo da una parte all’altra fino a liberarsi nello spazio introno al quadro. L’artista così mette in scena una sorta di “pieno di vuoto” che crea uno spazio di risonanza che non è mai assenza in quanto è abitato da apparizioni e da emanazioni auratiche ed è “vibrato” dall’istaurarsi delle loro relazioni.
Giuseppe Ayna, appassionato lettore del poeta giapponese Shimpei Kusano, conosce ed apprezza anche la cultura orientale, da cui ha appreso che l’essenza del mondo si esprime anche attraverso l’irregolarità, l’asimmetria e lo spirito del vago, che poi si è poi quanto permette di intravedere una macchia verde in uno spirito primaverile, è lo sguardo che si insinua oltre il velo dell’apparenza, o, come scrive Kusano così in corrispondenza con certi malva notturni e petrosi della tavolozza di Ayna, è “vino colore di luna./A terra rigagnolo scorre”. Così, anziché perdersi nella complessità del dettaglio minuzioso e irrilevante, l’artista mira all’economia del tratto e alla linearità delle forme, da cui deriva quella tipica bidimensionalità che fa sembrare certi lavori come versioni contemporanee di antiche icone bizantine, luoghi intimi ma non privati, perché aprono l’accesso all’invisibile e perché sanno parlare, a chiunque abbia voglia e pazienza di ascoltarne la voce, del mondo e del mistero che lo circonda.
Semplicità e linearità del resto rinviano a un impulso estetico puro che rende conto del fatto che anche l’universo è semplice, seppur nella sua estrema complessità. La semplicità dello sguardo di Ayna è cosi capace di cogliere la complessità del reale che da sempre si nasconde dietro il quotidiano, penetrando più in là della soglia dei fenomeni in un sommesso colloquio privato con se stesso e col mondo, poiché come ha scritto Henri Poincarè in La Scienza e l’Ipotesi, se “da un lato la semplicità si nasconde sotto apparenze complesse, dall’altro, al contrario, è la semplicità a dissimulare realtà estremamente complesse”.
Questa forma aperta e pulsante dell’opera, che racconta del mistero del vivente e che evoca meraviglia, stupore e dramma dell’esistenza, risuona nel lavoro dell’artista, favorisce il dialogo tra finito e non-finito (in-finito) e realizza una sorta di mobilità meditativa dell’opera, quel tipico tremolio di certi aloni luminosi che ri-vela (nel senso heideggeriano per cui la verità si scopre nel momento stesso in cui si nasconde di nuovo) il fiorire, l’eclissare e il riemergere delle forme dall’indistinto, immerse in quello spazio risonante che tutte le contiene e tutte le connette.
Ecco il fascino estremo e segreto del lavoro di Giuseppe Ayna, devozione all’arte che spersa se stessa nel contatto profondo con la vita, espressione di una forma di bellezza ascosa e sfuggente e quel fertile stupore che viene dalla scoperta dell’incompletezza, di quel sentirsi allo stesso tempo tra le cose e più in là di esse.